Sabato 6 settembre ricorre il primo anniversario della morte di Luciano Pavarotti. E’ quasi superfluo ricordare il suo legame con la nostra città di adozione che definire stretto, oltre ad essere ben misera cosa, sta innanzitutto agli antipodi di quel largo che in tutto lo esprimeva e non soltanto nella prominente fisicità.

Largo il cuore, larga la voce, largo il talento, larghissima la capacità di essere grande coi grandi e piccolo coi piccoli. Ci sovviene, al riguardo, il suo simpatico legame con la indimenticata e minuta bagnina Derna, che, come ci ha raccontato il figlio Enrico, lui era solito chiamare con affettuosa ironia, “La Dernona”. Da scafati enigmisti, subito dopo la sua scomparsa, a Luciano Pavarotti dedicammo un nostro lavoro e precisamente: “Un calvario patito” che, come qualsiasi anagramma che si rispetti, contiene proprio le sedici lettere del suo nome e cognome opportunamente cambiate di posto, col resto di zero. Sì, amici di big Luciano, anche Pavarotti prese una stecca nella sua vita. Una sola. Ma di legno; forse molto nodosa e comunque la più dolorosa. Si tratta di quella trave orizzontale che i latini chiamavano patibulum da patere, aprire, perché serviva a serrare l’uscio di casa. Quella medesima di cui Gesù, così ci racconta la Sindone di Torino, si gravò le martoriate spalle fino al luogo del teschio. Là, dove già lo attendeva, ben piantato nell’arido terreno, il palo verticale della croce.
Leone Pantaleoni
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