
La fiction su Giuseppe Di Vittorio conferma la regola di una professionalità che non c'è più e, quel che è peggio, della quale non se ne sente più neanche il bisogno.
Se non tutte le sceneggiature possono essere firmate da Zavattini, Flaiano, Pasolini o Suso Cecchi D'Amico, tutte devono essere migliori di chi ne scrive di superficiali e di burattinescamente asservite a quelle ideologie che sempre sconfinano nell'utopia. Prima fra tutte la più falsa e bugiarda di un mondo spaccato tra buoni e cattivi come la lavagna d'una scuola. Sappiamo bene che in quelle tribolate terre la regola dei pochi sfruttatori e dei molti sfruttati non concedeva eccezioni che non fossero caso mai a favore dei primi. E dunque non è questione di schierarsi con gli uni invece che con gli altri. Si tratta soltanto di non dimenticare che mai i buoni stanno tutti da una parte e che mai essi sono buonissimi angeli opposti a cattivissimi demoni. Ricordo che nei grandi romanzi il virtuoso ha sempre qualcosa del vizioso e viceversa, e che nel leggerli, nel sentirmi vittima con la vittima, avvertivo come inquietante la sensazione che c'era in me qualcosa del carnefice. Ecco cosa distingue un testo di valore dagli altri: mentre noi lo leggiamo, ne veniamo letti.
Tornando a bomba, invito i distratti a rileggere la fiction di cui sopra dove, tanto per fare un esempio, il prete, ben più che una macchietta, è un odioso bamboccio carnevalesco aggrappato alla tavola imbandita del padrone 24 ore su 24. Un personaggio più in cartapesta non lo avrebbe concepito nemmeno la più ottusa lettrice di romanzetti rosa. Possibile che in quel di Cerignola, il pretazzo, non avesse altro da fare, come ad esempio un parrocchiano ch'è uno da accompagnare al camposanto?
Leone Pantaleoni
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